FOREVER TURISTI DI PASSAGGIO
Integrazione in Giappone di uno straniero occidentale.
L’integrazione di uno straniero in Giappone non è un gioco da ragazzi. Tanto per cominciare il Giappone è un arcipelago, e come sappiamo anche in terra nostrana, gli isolani sono un po’ “a sé”. E ve lo dice uno che ha il 25% di DNA sardo. Chi emigra è straniero, e lo sarà sempre, ovunque, al di fuori dei propri confini nazionali. Tuttavia, per noi occidentali, essere straniero in Giappone non ha lo stesso significato che esserlo “a casa” in Occidente. Cercherò di raccontare uno spaccato di realtà per spiegare le difficoltà di integrazione di uno straniero occidentale in Giappone.
Chi sta fuori e chi sta dentro
Premessa. Il Giappone è rimasto chiuso ai contatti con qualsiasi paese straniero per un periodo di tempo di 214 anni (1639-1853) durante la politica del Sakoku, letteralmente “Paese chiuso”, in epoca Tokugawa. A parte rarissime eccezioni a fini principalmente economici e commerciali, a nessuno straniero era concesso calpestare il suolo giapponese. Quando pensiamo al Giappone, e quando ci scontriamo con la realtà di cui sto per raccontarvi, è bene tenere a mente che il Giappone ha riaperto le frontiere da poco più di 150 anni, dopo un periodo di chiusura ermetica di 214.
Al di là di tutto il discorso imperversante in Giappone sulla presunta purezza e unicità della razza giapponese, questa informazione ci è utile a capire che per i giapponesi esiste una nettissima distinzione tra il dentro uchi e il fuori soto. Questa separazione avviene sia in termini geografici, in quanto è un insieme di isole e pertanto circondato dal mare, sia in termini culturali, perché appunto il Giappone, fino a tempi incredibilmente recenti, era solo dei giapponesi.
Integrazione e Occidentali: i “veri” gaijin e turisti forever
Questa premessa serve a comprendere almeno in parte il background del discorso, ma ciò non risparmia comunque noi residenti di lunga data da una buona dose di situazioni spiacevoli. Vivo a Tokyo da quasi dieci anni e a mio avviso ho seguito un percorso positivo di integrazione qui in Giappone. Parlo fluentemente la lingua e ne conosco la cultura. Ho amici del posto, ho frequentato l’università qui, lavorato per aziende giapponesi, sperimentato dall’interno le festività e ricorrenze principali. E ancora mi tocca ricevere lo sguardo (e in molti casi, il trattamento!) da “gaijin turista”.
Siamo tutti gaijin (stranieri), è chiaro. Ma ci sono stranieri turisti, e stranieri residenti. Stranieri che sperimentano, e stranieri che hanno già sperimentato. Ovviamente chi mi conosce non mi riserva il trattamento da “matricola” sprovveduta. Il problema è scavalcare l’invisibile barriera del pregiudizio visivo dell’aspetto fisico, che è radicato nella mentalità della maggior parte dei giapponesi. La sbrigatività di arrivare a una conclusione, ricorrendo a un set di categorie limitate in cui incasellare i fenomeni e le persone per semplificare la complessità della realtà. Questo è il meccanismo dello stereotipo che non di rado sfocia in pregiudizio (ovviamente questo non riguarda solo il popolo giapponese).
Mi spiego meglio. Io sono bianco, palesemente occidentale, ho anche gli occhi azzurri quindi figuratevi. Al cospetto di un qualsiasi passante io sono un gaijin turista. Non solo, sono americano. E ovviamente non so parlare giapponese. Se per caso dicessi di vivere in Giappone, allora mi verrebbe chiesto se sono un insegnante di inglese (sempre americano). Inizialmente pensavo si trattasse di un caso limite, una battuta, ma la situazione si è andata a ripetere infinite volte negli anni e ho capito. Da una parte questo è il risultato di una situazione concreta e reale, in cui la maggior parte dei bianchi in Giappone, durante gli anni ’80 e ’90 erano americani arrivati in Giappone per arricchirsi con i soldi della bubble economy insegnando inglese. Nessuno parlava un “H” di inglese in Giappone in quegli anni, e ci si arricchiva veramente lavorando come insegnanti.
Lasciamo perdere un attimo la conoscenza della lingua, la flessibilità mentale, l’accettazione della rinunciare del “sé” ecc. Il punto qui è il pregiudizio, ossia la decisione aprioristica di chi sono e cosa so fare, ancora prima che io apra bocca. Ogni volta che entro in un negozio, un ristorante o simili, sento su di me lo sguardo esitante degli impiegati che non sanno come approcciarmi. Poi arrivano con un timido “harooo…” e io li rassicuro che possono mettersi l’anima in pace e parlare giapponese. La maggior parte della gente a quel punto si distende, spesso si complimenta (anche qua ci sarebbe da aprire una parentesi, ma facciamo la prossima volta). Ma alcune volte l’interlocutore non afferra il messaggio e continua a rapportarsi con me con sorrisetti imbarazzati, scandendo lentamente, mischiando vocaboli inglesi alle frasi in un pasticcio incomprensibile. Questa cosa, non vi nascondo, mi avvilisce tuttora.
Capisco se qualcuno bravino in inglese volesse approfittarne per fare un po’ di pratica, ma non essendo il caso non ne vedo il senso. Oggi stesso, per dire, sono andato al ristorante e in automatico mi sono beccato il menù in inglese. Poi al konbini e, dopo aver risposo in giapponese alla tizia alla cassa, lei continuava a parlarmi in un inglese incomprensibile. Al che le ho ribadito che poteva parlare in giapponese ma non c’è stato verso. Ci ho rinunciato. Ogni volta che distribuiscono volantini in giro, a me tocca sempre la versione (scarna e discutibile) in inglese. Succede all’ordine del giorno. Mi rendo conto che questo approccio sia di aiuto ai turisti, che incontrano delle difficoltà non indifferenti in Giappone, ma bisogna mettersi nei panni di chi turista non è e lotta per l’integrazione.
Le mille sfumature della discriminazione
Questo dello stereotipo fisico che conduce a pregiudizio era un esempio lampante, perché ovviamente la stessa cosa non succede agli stranieri asiatici, che “passano” per giapponesi. Interessante è notare che il termine gaijin, nonostante significhi “straniero” a volte è usato nell’unica accezione di “occidentale”. La discriminazione nei confronti di chi non è giapponese arriva molto più in profondo. Esiste un tipo di discriminazione di cui sono vittime gli occidentali, un’altra prettamente asiatica. Ha tante facce, quella della violenza fisica, quella della violenza verbale, e poi ce n’è una ancora più subdola, che risiede in tanti piccoli aspetti della quotidianità… e soprattutto nelle leggi di un Paese.
Affittare un appartamento è una di quelle situazioni in cui ti rendi conto che la nazionalità è tutto. C’è diffidenza ad affittare a uno straniero, seppur referenziato, perché i gaijin fanno rumore, sono inaffidabili, non parlano giapponese, non hanno famigliari vicino da fargli da garante. In agenzia mi è stato detto più di una volta: “Mi dispiace, abbiamo finito gli appartamenti per stranieri”. Comportamenti errati esistono tanto da parte degli stranieri quanto dei cittadini giapponesi, ma invece di giudicare caso per caso in base a criteri oggettivi quali lo stipendio, lettere di raccomandazione, ecc, il pregiudizio legato solamente alla nazionalità è il primo ostacolo che uno straniero incontra, ed quello più invalicabile.
Sempre per rimanere in termini legali, ci sarebbe da menzionare anche il discorso relativo allo straniero che volesse fondare un’azienda. Gli stranieri in possesso di un visto di soggiorno permanente hanno pressoché pari diritti di un cittadino giapponese davanti la legge (eccetto il diritto di voto e forse qualcos’altro). Per loro (e ovviamente per i giapponesi) aprire un’azienda richiede poche ore e 1 yen di capitale iniziale. Noialtri, però, che viviamo in Giappone in qualità residenti di lungo termine e in possesso di un “normale” visto lavorativo, che lavoriamo qui, produciamo reddito, usufruiamo dei servizi locali e ovviamente paghiamo le tasse, siamo soggetti a un’infinità di restrizione e condizioni che non la rendono affatto un’impresa facile, e le cifre di partenza hanno entità ben diverse.
Cittadini part-time
Produciamo reddito, paghiamo le pensioni alla popolazione giapponese che invecchia inesorabilmente, ma poi siamo considerati cittadini “part-time”. Ultimo esempio lampante: la gestione dell’emergenza COVID-19 di queste settimane. Per contenere l’espansione dei contagi, a partire dal 3 Aprile il Giappone ha implementato una severissima politica di ingressi alla frontiera. Questo è avvenuto certamente in tutto il mondo, ma nella maggior parte dei paesi industrializzati (e comunque nei paesi del G7), si è tenuto conto della residenza abituale dei cittadini stranieri nell’applicare tali restrizioni.
Ad oggi, noi italiani residenti in Giappone, non possiamo lasciare il paese perché al rientro ci verrebbe vietato l’ingresso. Non importa con che visto risiedi, non conta se sei un residente permanente che ha trascorso gli ultimi 20 anni di vita fisso nel suo appartamento nella periferia del Kyushu. Non conta se hai coniuge giapponese e hai anche dei figli qui. Sei comunque gaijin, in più nella fattispecie sei italiano, e quindi se decidi di andare a trovare la tua famiglia al ritorno rimani alla frontiera. Mentre un giapponese, se venisse in Italia, ovviamente potrebbe rientrare cavandosela con un esame PCR e due settimane di quarantena auto-imposta. Ignorare il concetto di residenza abituale di un cittadino straniero, significa essere ciechi sulle dinamiche del contagio e stabilire un criterio di validità basato solo sul passaporto.
A questo proposito, è stata indetta una petizione su CHANGE.ORG per abolire il criterio di nazionalià e permettere agli stranieri residenti in Giappone di uscire e rientrare alle stesse condizioni dei cittadini giapponesi. Se la causa vi sta a cuore, per favore dategli un’occhiata!
Sospendere il giudizio di fronte alla complessità
Nel frattempo le cose sono radicalmente cambiate, e non solo ci sono persone di ogni nazionalità che vivono e lavorano in Giappone, e che parlano anche bene la lingua, ma questo non è sufficiente perché cambiare la mentalità della gente non è un processo immediato. Ad oggi, ai fini dell’integrazione in Giappone, l’aspetto fisico conta ancora parecchio. Una buona parte dei cinesi e coreani che vivono in pianta stabile in Giappone, ad esempio, riescono a “mimetizzarsi”. Ma qui non sto inneggiando a una “piallata” delle differenze. L’obiettivo dell’integrazione non dovrebbe essere quello di dissolvere le peculiarità di ciascuno assimilandosi al contesto culturale dominante, bensì convivere con il diverso senza idee preconcette circa quello che fa o che sa fare, chi è o da dove viene.
Io sono un cittadino italiano residente in Giappone in pianta stabile, gaijin ma integrato. Non sono un turista. Vorrei che nella mente del passante di turno sorgessero le seguenti domande: “Di passaggio? Residente? Parla giapponese? Forse no? Chissà da dove viene? È nato qui?”. Penso a tutti quei bambini nati in Giappone da genitori entrambi stranieri, magari bianchi o neri, o del sud-est asiatico. Questi bambini sono “diversi” dai loro coetanei giapponesi di sette generazioni, ma giapponesi tanto quanto loro. Tuttavia la concezione giapponese della “razza” basata sul sangue, non permette l’automatica integrazione in Giappone e subiscono una discriminazione sia verbale che culturale e legislativa. Questo è quello che, purtroppo, succede tuttora anche in Italia, come in tutti i paesi dove vige lo ius sanguinis.
Bisogna aggiungere che ci sono anche delle situazioni di comodo che da occidentale si incontrano in Giappone, e di questo vorrei parlare meglio in un’altra occasione. Sto parlando del cosiddetto “privilegio bianco”. Dei privilegi nessuno si lamenta, chiaro, ma anche quelli contribuisciono ad aumentare la distanza tra “noi” e “loro”, e rappresentano comunque un ostacolo all’integrazione in Giappone.
Insomma…
Tutto questo per dire che, nel nostro piccolo o grande che sia, la discriminazione si manifesta in tante leggere sfumature e può riguardare davvero tutti. Chi ha sperimentato la sensazione di uscire anche solo per un po’ dalla propria comfort zone lo sa bene. La realtà del mondo in cui viviamo è estremamente complessa, e non si può ridurre a sbrigativi concetti o etichette. C’è bisogno di più sensibilità, più apertura mentale e meno giudizi “a monte”. C’è bisogno di fare del nostro meglio per mettersi nei panni altrui, anche quando i panni sono di tutt’altra taglia.