UNO PER TUTTI, E TUTTI PER UNO

UNO PER TUTTI, E TUTTI PER UNO

Obiettivo della missione: preservare l’armonia del gruppo

Oggi, dopo diversi anni di vita (mondana, studentesca e lavorativa) in Giappone mi capita di passeggiare, di fare la spesa, di andare a lavoro, di uscire con gli amici, di andare al karaoke e di pensare che, tutto sommato, anche io faccio parte di questo posto. Contribuisco come tutti al funzionamento della società, so in che giorno mangiare sushi e quando è meglio acquistare le verdure al mercato locale, ho i miei ristoranti preferiti e so dove dirigermi e come muovermi per procurarmi qualsiasi cosa di cui abbia bisogno. Insomma, posso dire di fare parte di questa comunità e di sentirmi soddisfacentemente integrato in essa. Mi ci è voluto un po’ a ingranare, ma poi è apparso chiaro e inequivocabile quanto qui tutti i processi siano altamente interconnessi. Di conseguenza, preservare l’armonia del gruppo sarebbe stata una chiave di lettura fondamentale per vivere efficientemente in Giappone.

La rinuncia del

Le difficoltà che un occidentale incontra nel processo di integrazione in Giappone sono innumerevoli. I compromessi, gli smussamenti e la rivalutazione di se stessi sono all’ordine del giorno. Quelli che ci sono riusciti, quelli che hanno assaggiato appena l’antifona e poi legittimamente deciso che non faceva per loro, o ancora quelli che si trovano nel bel mezzo del processo e stanno facendo del loro meglio per riuscirci, sanno bene di cosa parlo. In questo post vorrei parlare di una delle rinunce necessarie per sentirsi davvero parte della comunità giapponese: la rinuncia del . Non si tratta di abdicare in favore di un’altra identità, ma di un processo più sottile. Si tratta di rinunciare al fatto di sentirsi in diritto di esprimere un’opinione, di dire ciò che si pensa in nome della propria qualità di essere pensante individuale. Si tratta di reprimere il nostro ko 個, che è la nostra istanza personale,in favore del bene comune, ossia l’armonia del gruppo.

importanza del gruppo in Giappone

Non si tratta di buone maniere, del grado di confidenza o formalità della situazione. E’ un discorso che sta a monte. Faccio un esempio banale ma esplicativo. Quando all’interno di un gruppo di giapponesi si deve decidere dove andare a mangiare, in quale ristorante, che tipo di cucina scegliere ecc, non è un processo immediato. Innanzitutto si decide la zona di ritrovo (calcolata rigorosamente in base ai punti di partenza di tutti, e quindi la comodità di ciascuno. E fin qui ci sta). Molto spesso, specialmente in situazioni formali, si elegge una persona al ruolo di “organizzatore” della serata(il cosidetto kanji 幹事)che si occuperà della prenotazione del ristorante, scelto in base a criteri non casuali, volti ad assecondare quelli che il kanji pensa siano i gusti dell’ospite o degli ospiti d’onore. L’addetto alla prenotazione condividerà il link del ristorante con i membri del gruppo, i quali verosimilmente non si metteranno a rilanciare con altre proposte e accetteranno la decisione del kanji.

Sondare il terreno per arrivare a una decisione condivisa

Chiaramente, trattandosi di un contesto formale, essendo stata eletta una persona appositamente per organizzare è chiaro che ci si sta zitti e fine della questione. Io vorrei invece parlare di contesti più informali, magari tra coetanei giovani, soprattutto studenti, in cui ci si immagina più elasticità nell’espressione del proprio pensiero. In realtà, in casi del genere, non è affatto raro che si decida il ristorante solo una volta riunitisi al luogo dell’appuntamento. E si decide rigorosamente tutti insieme. All’interno di un gruppo è ben difficile immaginare che qualcuno si alzi in piedi annunciando a gran voce “Io voglio mangiare coreano!” – tanto per dire. Ci si interrogherà a vicenda per capire più o meno che tipo di cibo l’altro vorrebbe mangiare. Il rituale scambio di “Tu che cosa vorresti? Per me va bene tutto!. “Io forse vorrei del ramenかな〜”.

Questo tira e molla va avanti un po’ senza che nessuno si esponga eccessivamente pressando affinché i propri gusti emergano. Infine, piano piano, con un bel lavorio impercettibile, si arriverà ad una soluzione condivisa (più o meno) da tutti. E’ difficile dire fino a che punto il consenso sia veramente condiviso. Tuttavia il processo decisionale viene gestito per sfumature e si conclude per gradi, in maniera liscia, priva di intoppi o prevaricazioni di sorta. Per la serena riuscita di tutto ciò è necessario essere disposti a “sacrificare” un parte di sé, le proprie preferenze, il proprio ko appunto, in nome di ciò che sembra essere più giusto per mantenere integra l’armonia del gruppo.

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